Quando nel luglio del ’79 Mimmo partì da Singapore con la Marina Militare Italiana per salvare la “gente delle barche”

Il primo articolo di un lungo reportage di 40 anni fa sui “boat people” mostra come la vocazione storica italiana e non solo sia di tutt’altro spirito rispetto a quanto succede oggi con i disperati lasciati a marcire sulle navi nel Mediterraneo.

Da “La Stampa” del 24 luglio 1979
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A Singapore con le navi italiane che da domani cercano i profughi

Le tre unità (Vittorio Veneto, Andrea Doria, Stromboli) punteranno sulle acque al largo dell’arcipelago malese – Un migliaio di vietnamiti al posto delle armi

Dal nostro inviato speciale
SINGAPORE – La partenza è fissata per domattina, alle prime ore di luce. Rotta Est-Nord-Est. Arrivate in porto sabato, le tre navi della Marina Italiana sono ora all’attracco di Levante, nello slargo della baia. Più avanti c’è la Vittorio Veneto; dietro, affiancate, la Stromboli e l’Andrea Doria. Fa un caldo dannato, appiccicoso. Il mare è piatto. I venti del Monsone girano al largo. Solo in quota le nuvole si muovono a una velocità straordinaria, disegnando il cielo; pesanti temporali si consumano in mezz’ora.
I marinai hanno addosso l’impermeabile di cerata nera, per pararsi dall’acqua; sui ponti, ci sono al lavoro ufficiali e <<marò>> in braghe corte.
L’operazione dell’ Ottava squadra navale ha un nome semplice che contrasta con le abitudini immaginifiche della retorica militare: si chiama soltanto “soccorso profughi vietnamiti”. Anche il comandante della squadra, l’ammiraglio Sergio Agostinelli, torinese, 57 anni dice solo poche parole, per rispondere alle pressioni dei giornalisti stranieri: <<E’ stata una decisione del governo italiano. Siamo marinai, era nostro dovere ma ne siamo anche lieti>>. E basta. C’è forse la paura di agitar troppe bandiere fuori luogo, e anche il pudore per cose alle quali non siamo poi tanto abituati.


Vista da qui, l’Italia è una roba davvero piccola e lontana. Ci accorgiamo di non essere né la Francia né l’Inghilterra, le domande dei giornalisti stranieri hanno ingenuità scoperte. Non gli è nemmeno chiaro il motivo per cui ci sia gente di un piccolo Stato che arriva con le proprie navi a migliaia di miglia da casa solo per tirare su dall’Oceano dei poveracci che rischiano di morire affogati. Qualcuno si chiede perché non ci ha pensato prima la Settima flotta americana, che da quste parti si vede molto spesso. Cè anche diffidenza e preoccupazione: <<Ma è sicuro che poi ve li portate tutti in Italia?>>.
L’ambasciatore e i tre comandanti rispondono con cortese sense of humour. La cosa viene molto apprezzata.
Le notiize in arrivo da Ginevra hanno un po’ calato la tensione. Ma i governi del SudEst asiatico fanno commenti cauti, nessuno vuol dire che forse non crede troppo all’impegno vietnamita di porre una moratoria. La storia del <<popolo delle barche>> non è ancora finita, un battello della Marina malese informava ieri che – a giudicare da quanto di vede in questo mare – nulla pare ancora cambiato. E comunque troppo presto per vederne un qualsiasi segno.


L’operazione <<soccorso profughi>> parte un po’ con questo rischio dell’incertezza totale. Si conosce soltanto il triangolo di mare su cui incrociare, le acqua internazionali a Sud del Golfo della Thailandia, verso le coste agitate del largo arcipelago malese; tutto il resto è da inventare giorno per giorno. Cosa fare, dove, come.
Il vento dei primi monsoni in questa stagione soffia da Nord-Est e impone in mare rotte obbligate; non è impossibile calcolare con una buona dose di probabilità il percorso che sono obbligate a seguire, in queste e nelle prossime ore, le barche che si sono allontanante dal Vietnam.
Primo obiettivo dell’Ottavo gruppo navale è <<intercettare queste imbarcazioni e dare tutto l’aiuto di cui hanno bisogno>>.
Quello che viene dopo sarà deciso <<momento per momento>>. A bordo son stati caricati ottomila capi di vestiario e di biancheria, settemila oggetti di pulizia personale, dodicimila chili di riso, diciassettemila scatole di carne, cinquemila di frutta sciroppata, diciottomila succhi di frutta, montagne di acqua minerale.
<<Siamo preparati davvero a qualsiasi evenienza: ad una crociera molto lunga o anche a un viaggio che si esaurisca in breve tempo>>.
Una visita nel ventre della nave fa scoprire il lavoro prezioso per adattare i due incrociatori alla singolare missione affidatagli. Sotto il ponte di poppa, cintando e chiudendo le murate esterne per evitare cadute in mare, si è creata una larghissima living-room: restringendo gli spazi dell’equipaggio e riducendo anche la presenza dei servizi ausiliari, son state poi ricavate nei ponti inferiori tre vaste sale-dormitorio attrezzate con letti a castello e dotate di aria condizionata. Ci saranno circa cinquecento profughi per nave, con un’assistenza medica che si spinge fino alla presenza di pediatri, dentisti, neurologi.


I marinai raccontano del loro lungo viaggio attraverso il Mediterraneo e Il mar Rosso.
Sono racconti che hanno un po’ l’andamento felice delle favole. <<L’acqua del mare era tanto calda, a 38 gradi, che non poteva essere utilizzata nemmeno per l’impianto di raffreddamento. E c’era un tasso di umidità che arrivava quasi al 95 per cento, roba da essere bagnati di sudore solo a star fermi>>. Intanto, hanno riempito le strade tentatrici di Singapore, chiedendo di Craxi e se fa caldo anche aRoma. Comprano un mare di radio e di macchinette elettroniche, <<cose che in Italia costano quasi il doppio>>. Ricordano anche quanto hanno dovuto <<ballare>> appena arrivati nell’ oceano, e i giorni che ci aspettano sono ancora peggiori.
Molti marinai ci chiedono – anche a nome dei loro compagni – d’informare le famiglie che loro stanno tutti bene, che il viaggio è stato un po’ duro ma anche interessante, che non c’è assolutamente nessun pericolo e che non vedono l’ora di tornare a casa <<ad abbracciarle>>. Telefonare è costoso e non sempre facile. Sperano di poterlo fare tutti, ma ci vuole tempo.
Nel quadrato ufficiali, un giornalista biondo chiede al comandante se le navi attaccheranno anche i pirati. Il capitano gli ricorda che bastano le leggi della navigazione, senza dover pensare di ricorrere necessariamente ai cannoni e ai missili delle grandi navi da guerra. Un giovane ufficiale poi spiega a bassa voce puntando verso il giovanotto biondo: <<Sandokan è una gloria nostra, ma è anche roba d’altri tempi>>.