Voci dai confini orientali “Gli ugandesi ci attaccano”

Reportage nella finta capitale dell’ex Congo – La Stampa – 04/11/1996

KINSHASA DAL NOSTRO INVIATO “Hallo, ici hotel 53…”, dice al microfono della sua radiotrasmittente il vecchio prete con gli occhiali. “Hotel 53…”, ripete ancora, e ancora. Avevamo appena sentito dalla radio una voce che sembrava chiedere aiuto, una parola subito trascinata nei fruscii del piccolo diffusore, e il vecchio ha afferrato subito il suo microfono. “Hallo. Hallo, parlez…”, ripete ora, preoccupato. Ma gli risponde soltanto il silenzio. Fuori fa un caldo da morirci, però la stanza è piena di apparecchi elettronici e dunque c’è un principio di aria condizionata. “Hotel 53” sembra un polveroso ripostiglio della Nasa, è soltanto il centro interdiocesano di comunicazioni, l’unica apparenza di Stato che sopravviva nello sfascio di un Paese che non c’è più. Kinshasa ieri ha avuto strade vuote per tutto il giorno. Era domenica, e nelle chiese di mattoni e di legno i preti neri raccontavano la pace nera ai loro fedeli neri. I fedeli erano impacchettati dentro abiti di colori smaglianti, e la pace era una pace soltanto di parole.

Bande di giovanotti cominciano a saccheggiare le case dei ruandesi anche nel centro della città, intere famiglie sono state trascinate via durante la notte, urlando, piangendo, e ora nessuno ne sa più niente. “I parenti vengono a chiedere aiuto a noi”, dice il giovane prete che ha appena celebrato messa nella chiesa di Sant’Anna e benedice una bimba tutta treccine e denti bianchi. La bimba se ne va felice, saltellando sotto gli alberi stanchi. Fa un caldo proprio da morirci. E subito la città è di nuovo vuota. Vicino all’hotel Memlin hanno bruciato un ruandese. “Lo hanno pestato di brutto, gli hanno messo intorno al collo una corda e lo hanno legato. Poi lo hanno acceso”. Il ragazzo, Joseph, lo racconta con indifferenza. ” Sono cose che succedono”, dice, e si stringe nelle spalle. Andiamo in giro per il quartiere a vedere se troviamo tracce di questo linciaggio. Ma il quartiere è vuoto, le strade sono vuote, in giro non c’è nessuno. Un vecchio che sta alla pompa della benzina Fina, seduto su uno sgabelletto, dice che sì, che questa storia è vera ma che lui non sa esattamente il posto. E sputa per terra. Il caldo è proprio da morirci. Dev’essere la pioggia che s’avvicina. E qui quando piove, di questa stagione, è come se il cielo si aprisse, con Noè, Mosè, e tutti gli altri santi, che scendono in terra. Ieri i bianchi se ne sono rimasti nelle loro ville, a bagnarsi nelle loro piscine, a farsi servire i cocktail e il pranzo dai loro servitori neri. La vita era come sempre, nell’apparenza.

Ognuno al suo posto. Ma si è parlato molto della mezza rivoluzione del ’91, che qui ancora tutti la ricordano e si sparava per le strade e i neri saccheggiavano auto, negozi, uffici, case. Sei anni sono niente, sembra roba dell’altro ieri. E ieri i piani di emergenza sono stati ripassati. Non si sa mai. Ieri faceva davvero caldo. Le notizie dei saccheggi sono andate avanti fino a notte. Non appena lo sanno gli informatori ti chiamano, ti guidano. Però seguire il filo di quelle voci significava trovare soltanto case sfasciate e porte sfondate. Che sapevano di puzza e di vuoto. Bussavi lì accanto, chiedevi, sorridevi. Allungavi la mano. Chi apriva si stringeva nelle spalle, e poi ti sbatteva la sua porta in faccia. Ma che vuoi, bianco. Stattene a casa tua. Il caldo faceva appiccicare la camicia sulla pelle, il caldo e la tensione. A notte il vecchio prete diceva che non aveva avuto più nessuna traccia di quella voce. Lo diceva al telefono, di notte a Kinshasa non si va in giro. Spiegava: “Qualche volta succede, sono magari notizie che i centri di ascolto si vanno scambiando e le voci si confondono. Comunque, il centro radio è aperto giorno e notte”. Per avere notizie di quanto sta avvenendo nel silenzio disperato della foresta, a duemila chilometri da qui, bisogna passare da “Hotel 53”. La rete radio dei missionari regge, anche dove lo Stato si è disfatto, e soldati e ufficiali, laggiù, sono scappati, abbandonando il terreno ai ruandesi. Per questo, le sole notizie le ha il vecchio prete con gli occhiali e la radio che si rinfresca dentro il vento leggero dell’aria condizionata. Nessun altro sa niente, nella città vuota. Anche l’Alto commissariato per i rifugiati è vuoto, nella città vuota. “È domenica, monsieur”, diceva il guardiano nero con il suo cellulare in mano. Nel cortile c’erano 200 auto bianche, targate Onu. Vuote. Ma era domenica, e faceva caldo. Chissà il caldo che sentivano, quel milione di disperati che ieri lungo i sentieri perduti della foresta trascinavano in silenzio la propria morte. L’Alto commissariato è stato tagliato fuori. Per ora la guerra ha vinto, e il governo di qui dice che basta con gli aiuti umanitari passati allo Zaire per i ruandesi. “I ruandesi sono un problema del Ruanda, e allora gli aiuti mandateli al Ruanda: che i suoi profughi se ne tornino a casa loro”. È una storia cominciata alcuni mesi fa, anzi è la storia che ha fatto precipitare la crisi. Ora quella storia si chiude drammaticamente, e la crisi è diventata una guerra. Sembra una guerra vera, anche se nessuno può vederla da dentro e raccontarla. Le notizie di dentro le ha soltanto il vecchio con la sua radio, che nella porta tiene appesa la mappa di questo gigantesco Paese ma ormai nemmeno la guarda più. Sa tutto, conosce tutto; è il vero cuore di uno Stato che non c’è più. In attesa di ritrovare lo Stato, il Parlamento di qui ha chiesto al governo di rompere le relazioni con l’Uganda, con il Ruanda e con il Burundi. Il Parlamento qui è una cosa enorme, che soltanto i cinesi e i russi ce l’hanno più grande: sono 750 deputati, e la rottura diplomatica l’hanno votata tutti. Volevano dire che la guerra è ormai una realtà ufficiale, che il territorio dello Zaire è stato invaso dai soldati delRuanda.

Le voci che gracchiano dentro la radio del vecchio prete ieri raccontavano che il controllo del territorio zairese i miliziani ruandesi per ora lo tengono senza difficoltà. “Tutto è calmo”, diceva “Sierra 21”. “Tutto è calmo”, diceva anche “Torino 24”. E poi ” Teresa 14”, “Carmel 18”, “Bianco 40”. Le sigle raccontavano la vita delle missioni, i salesiani, i saveriani, le suore di Santa Teresa, i padri comboniani. E le voci che si susseguivano nell’aria condizionata di quel ripostiglio della Nasa dicevano intanto chi c’è ancora, chi è partito, chi combatte, chi vive. Non possono dire nulla di chi muore. Il milione, i 2 milioni, che sono scappati via dai nuovi invasori, ora vagano perduti dentro la giungla. Soli con se stessi, accompagnati solo da una morte che non ha più voce per il mondo che sta fuori dal loro inferno desolato, cannibale. La radio del prete che si fa Stato dava ieri anche un’altra notizia, che è molto grave, e molto importante, se in questi giorni avrà una conferma: diceva che si combatte più a Nord, che i padri missionari di tre piccoli posti sperduti nel verde immenso della mappa dello Zaire hanno sentito sparare e hanno visto gente che pareva di fuori. Gente straniera. Quei tre posti non hanno più nulla a che fare con il Ruanda, sono di fronte all’Uganda, da quest’altra parte del confine. Se la storia è autentica, e quelli che sparavano non erano soltanto cacciatori che fingevano una guerra, allora la crisi qui ha raggiunto il suo più alto punto di rottura: e diventa un fatto concreto che accanto ai tutsi di Kigali la battaglia stia ormai tirando dentro il conflitto anche Kampala e l’intera frontiera orientale. Allora, questa diventa davvero la prima grande guerra d’Africa. E nel cuore del continente si apre una voragine che rischia di trascinare milioni di morti nel vuoto oscuro degli odi razziali. Una vecchia leggenda della foresta equatoriale dice che la morte non è cattiva, che sono gli uomini che l’hanno fatta cattiva. La vecchia leggenda hanno cominciato a raccontarla nei villaggi della foresta quando l’uomo bianco è sceso fin quaggiù, entrando nel cuore delle tenebre, distruggendo il corso antico della natura, rovesciando gli equilibri antichi di una civiltà costruita nei secoli. Era inevitabile, ma l’Africa si è fatta storia di una tragedia. La tragedia ora continua, e le colpe che racconta non trovano alibi. I governi del mondo gridano di orrore per il milione di morti ambulanti, però chi ignora le ragioni di questa voragine aperta nel cuore dell’Africa, li ammazza per due volte.