Un racconto di Mimmo

Questa lunga interruzione del filo che lega Mimmo con chi ama la sua scrittura e la sua figura, ha ovviamente un significato molto tragico, legato al tempo del Covid-19 che stiamo vivendo e che ci fa contare ogni giorno migliaia di vittime nel mondo.
Però abbiamo pensato che forse il racconto di qualche avventura della sua vita spericolata possa servire a distrarci nel chiuso delle nostre case, in una prigionia salvifica che un giorno ci porterà verso una vita forse diversa da come l’abbiamo vissuta finora.
Questo brano tratto da “55 Vasche” sembra la versione più moderna e accorata di un film western. In realtà Mimmo ci racconta una storia che gli è accaduta, e gli è tornata in mente in un momento assai buio della sua vita. Facciamoci , vi prego, un po’ di compagnia.

“Quando senti che vogliono ammazzare proprio te
ma tu non puoi farci nulla

La morte vera, quella che ti mettono in una cassa di legno, non quella ipotetica d’una brutta storia quotidiana, e peró sei riuscito a venirne fuori, e allora tutto quello che hai d’attorno, e le cose che ti dicono, le cose che devi fare, tutto viene valutato con un distacco e una serenitá che possono avere soltanto coloro che hanno superato prove estreme, e sono pochi. In guerra mi era accaduto molte volte, di finire sotto tiro, quando il sangue davvero si gela perché senti che vogliono ammazzare proprio te ma tu non puoi farci nulla; e alla fine, se ne esci, per una delle tante mille circostanze che in guerra non hanno alcuna logica, perché in guerra vivi e muori allo stesso modo, allora ogni passo, ogni respiro, sono come il primo passo, e il primo respiro, d’una vita nuova.

Un mattino, a Korramshar, nel Sud dell’Iraq, seguendo l’avanzata delle truppe di Saddam che invadevano l’Iran, in tre o quattro di noi ci trovammo imbottigliati sotto il tiro di una pattuglia khomeinista, che ci puntava dall’alto d’un corto rialzo del terreno. Due di noi, Mo del “Corriere” e Lami del “Giornale”, buttandosi giú e appiattendosi come biscie impaurite, riuscirono a ripararsi dietro le ruote di un grosso jeeppone sfondato da una cannonata, e stavano immobili, con il cecchino che li cercava nel suo cannocchiale; erano in trappola, non sapevano che cosa fare per uscirne, perché – a ogni piccolo movimento – quello da lassú tirava a colpire. Sgusciai via, allora, dal rudere d’una casa in macerie dove io mi ero rifugiato, e strisciando addosso al muro, appiccicato ai mattoni come un vecchio francobollo che non vuol staccarsi, lentamente, centimetro dopo centimetro, arrivai a pochi passi dai miei due compagni, per dargli a voce un conforto, certamente, ma anche qualche indicazione che potesse aiutarli. Avevo il cecchino di fronte a me, lí in alto, e loro due erano in mezzo, tra me e quello; ma loro erano ciechi, chiusi dal jeeppone che gli salvava la pelle, mentre io potevo vedere i colpi che partivano. E sentivo il sibilo del proiettile che mi sfiorava, perché quello – lí, in alto – seguiva i miei spostamenti e mi cacciava.

Duró un tempo che non finiva mai, giocando un rimpiattino mortale con il pasdaran che doveva avere un caricatore lungo quanto i mille racconti di Sharazade. Ma in quel tempo immobile, mentre nel vuoto dell’aria sentivamo le cannonate della battaglia di fianco a noi, trovammo alla fine il modo anche di scherzarci su, in un dialogo surreale tra me che stavo dietro il muretto e loro due schiacciati a terra a 4 o 5 metri da me; parlammo di tutto, ci prendemmo in giro, ci passammo istruzioni su come sopravvivere, “non muovere il tuo culone che finisci dentro tiro”, “attento al braccio, lascialo dov’é”, “no, no, fermo, non me ne fotte niente che la gamba ti fa un male boia”, ci raccontammo il passato e il futuro, il giorno e la notte, nella disperata attesa di trovare una qualche via di fuga, mentre quello continuava a tirarci addosso e vedevo che spostava di continuo la sua posizione per metterci meglio a fuoco. Alla fine, un carro armato iracheno, un vecchio T-62 che stava avanzando lentamente, ci arrivó addosso e, vedendo i segni disperati che gli facevo e le indicazioni che tentavo di fargli capire, s’interpose davanti al jeeppone e puntó il suo cannone verso il rialzo, tirando due colpi.

Mo e Lami si sganciarono come lepri in fuga, e ci rituffammo tra le macerie di quel rudere di casa. Ci abbracciammo, ma avevamo un’aria un po’ stralunata, e non dicemmo piú nemmeno una parola. In quel rudere s’era rifugiata anche una piccola squadra di soldati iracheni, che pareva non avessero alcuna voglia di stare in battaglia e, soprattutto, non glie ne fregava niente di noi tre disgraziati presi in quell’inferno, lá, fuori. Peró, con sorrisi larghi, con gesti esagerati di cortesia, quando ci videro rientrare ci offrirono una tazza del té che stavano facendo bollire in un angolo. Lo bevemmo da un’unica ciotola di latta, a turno. Era caldo e molto dolce. Con Ettore e Lucio non abbiamo mai piú parlato di quella storia, ma ce l’avevamo dentro di noi, e lo sapevamo.

Poi, anche caricammo su una jeep dei soldati un nostro collega, uno jugoslavo, che era stato colpito alla fronte, forse da quello stesso cecchino, e il colpo lo aveva preso da un lato e fuoriuscito dall’altro, ma non l’aveva ammazzato perché il tiro s’era avvitato per la forte distanza. Lui cercava di sorridere, pallido bianco; con la carta igienica presa dal borsone tamponavo alla meglio il sangue, che era rosso vivo e gli scivolava giú dal mento e sul petto. Lo portammo all’ospedale, e si é salvato; lo incontrai qualche giorno dopo, sempre a Khorramshar, che un turbante di garza gli fasciava la testa.