Ruanda – L’esercito caccia i miliziani hutu e apre la strada per il drammatico ritorno in Ruanda

Zaire, la marcia del popolo perduto In cammino 700.000 profughi

Reportage- Una tragedia africana – La Stampa – 16/11/1996

GOMA DAL NOSTRO INVIATO È finita, il popolo dei morti viventi lascia lo Zaire e torna a casa. Nemmeno la Bibbia seppe raccontare un esodo disperato come questo, di una nazione che si piega ai destini amari della propria tragedia e si rimette sulla strada del ritorno. Dalle tenebre più nere dell’Africa, un misterioso tam tam si era messo a rullare ieri notte, ha superato campi e foreste, è passato lungo i sentieri nascosti della savana, si è infilato tra gli alberi secolari della giungla, ha toccato ogni angolo sperduto dove un ruandese si era rifugiato. Il tam tam ha rullato a lungo, ha battuto e ribattuto il suo messaggio, e nel pieno della notte, nel silenzio cupo di una notte senza stelle e senza luce, il popolo dei morti viventi si è tirato su dall’erba dove giaceva da due settimane, e si è messo in cammino. E non mille, o diecimila, ma tutti. E tutti contemporaneamente, come se dovessero rispondere a un ordine magico, a un richiamo irresistibile che attraversava il cuore dell’Africa. Quando è spuntata l’alba, ieri mattina, già le avanguardie di questo popolo in cammino avevano raggiunto la periferia di Goma. Nel silenzio incerto della prima luce, andavano come fantasmi, lentamente, in una fila che si stava allungando dentro l’orizzonte e di tanto in tanto lasciava cadere da un lato, sull’erba, coloro che non reggevano più la fatica, o quelli che ora morivano a un passo appena dalla terra promessa.

Con un passo greve, sempre uguale, trascinandosi addosso la casa e la vita, la lunga fila nera avanzava, i più vecchi appoggiandosi a un bastone, bimbi e donne camminando più speditamente. Ma tutti in silenzio. Quando il sole si è finalmente levato alto sulla savana, superando la punta degli alberi più alti della foresta e diradando le ultime ombre dell’alba, la lunga fila delle termiti umane era diventata ormai un muro compatto, un fronte impenetrabile che copriva l’asfalto e avanzava come un’onda di marea, un’onda lenta ma inarrestabile. Venivano piano, con le loro povere cose sulla testa, coprendo l’intero asfalto, uno accanto all’altro, uno addosso all’altro. Uomini, bimbi, donne, vecchi, sciancati, un poliomielitico che trascinava le sue gambe vuote, un cieco tenuto per una corda, tutti diversi e tutti uguali. Nessun racconto, nessuna immagine tv, riusciranno mai a rendere la forza tragica di quella marea che veniva avanti compatta, divorando lentamente la strada. Nulla, se non chi c’era, potrà ricordare il puzzo forte di umanità, il calore dei corpi polverosi, le labbra arse, la fatica del cammino, la dignità di questo esodo. La dignità, certo. Era una transumanza senza illusioni, che teneva tutte le sue speranze legate assieme con qualche pezzo di corda, una sporta di plastica, qualche paiolo appeso al braccio, un materasso di gomma piuma arrotolato sulla schiena. Storie di una vita che valgono, ciascuna, non più di qualche dollaro. Eppure ti passavano accanto senza chiedere nulla, ti sfioravano, ti urtavano, ti spingevano, ma non dicevano una sola parola, non hanno mai aperto la mano a chiedere un aiuto. Andavano, lenti, con gli occhi bassi, sfiniti dalla fame e dalla fatica. Solo i bimbi sapevano sorridere, con i loro denti bianchi e ancora qualche illusione dentro. “Bonjour” o “halò” o ” ciao”, e ti porgevano la piccola mano perché tu gliela stringessi. Come i grandi. Ma molti di loro non arriveranno mai a essere grandi.

Ho risalito la colonna per una decina di chilometri, muovendomi controcorrente, penetrando a fatica dentro il muro dei corpi, incuneandomi con i miei panni di uomo fortunato nella massa cenciosa e lacera che si apprestava a cambiare la propria vita ancora una volta senza, in realtà, mutarla mai. Non so quanta gente si possa incontrare in due ore di marcia dentro una parete uniforme di gente, forse centomila, forse duecentomila; ma era come se la storia dell’Africa stesse sfilando accanto, rivelando in quel passaggio di vite senza storia il suo destino immutabile, di miseria estrema, di orrori incolpevoli, di esistenze prive di ogni possibile speranza. Nessuno mai si è tuffato dentro il cuore dell’Africa quanto colui che s’è trovato a essere soltanto un corpo tra settecentomila corpi; un popolo in fuga dalla paura può raccontare nell’esodo di un giorno anche la storia collettiva di un intero continente. La svolta che ha aperto la strada al ritorno è stata certamente la battaglia dell’altro ieri, degli zairo-ruandesi contro i soldati hutu. Gli hutu – schierati con le loro armi – si interponevano tra il milione di profughi stesi sull’erba e la via del loro ritorno a casa, in Ruanda. Sono stato testimone diretto di quest’ultima battaglia, ne ho potuto seguire l’attacco finale restandomene – da testimone isolato – in mezzo alle colonne che avanzavano sulle linee hutu. Lo sfondamento del fronte non c’è stato, quando la notte era calata; ma gli hutu hanno capito ugualmente che ogni resistenza si era fatta impossibile. E nel primo buio sono scattati verso Oriente, nella foresta. Hanno anche tentato di trascinarsi via i profughi del campo di Mugunga, il mezzo milione di morti viventi che loro custodivano disperatamente in ostaggio, temendo di venire abbandonati alla caccia degli eserciti nemici. Ma questa volta la loro minaccia è servita a poco: soltanto qualche migliaio si è alzato, sotto la minaccia delle armi, e ha preso con loro la strada della foresta, verso Oriente. Gli altri sono rimasti sui loro giacigli fatti di nulla, troppo stanchi, troppo affamati. E il tam tam ha cominciato a rullare. Il suo suono si è allargato sul pianoro, rapidamente, è diventato un brusio e poi un tuono. I morti viventi si sono alzati, hanno cominciato a raccogliere le loro povere cose, e a legarle assieme. Dopo due anni, ora si tornava a casa. I bimbi piangevano, le donne piegavano i teli sotto i quali sole e pioggia avevano faticato a passare, gli uomini mettevano assieme gli ultimi rami raccolti per fare il fuoco. Mugunga, il campo-profughi più grande del mondo, si svuotava. Ci sono arrivato che era già mattino fatto. Le ultime famiglie si stavano mettendo sulla via del ritorno, ma la strada comunque era già piena di coloro che arrivavano dall’interno, un fiume ininterrotto che era stato raggiunto anch’esso dal misterioso tam tam della notte e ora passava dentro al campo, lungo la rotta di Goma e – poi – della frontiera. Mugunga era un’immensa distesa di pali di legno e di qualche telo blu, piantati a fatica nel terreno duro, nero, fatto di roccia e di lava.

L’agitazione della partenza non riusciva a cancellare lo squallore disperato del panorama, l’abbandono della piccola città della miseria. Il puzzo della morte ammorbava l’aria, e i cadaveri si consumavano lentamente. A Mugunga, nelle ultime due settimane, dopo l’espulsione delle organizzazioni caritatevoli, si erano ormai ammassati più di mezzo milione di profughi in arrivo da ogni altro campo: erano partiti da Katale, da Kahindo, e da Kibumba, tremila, forse cinquemila al giorno, passando attraverso la foresta, marciando in una lunga fila che aveva lasciato sul terreno decine di migliaia di corpi stroncati dalla fatica, dalla fame. E Mugunga era diventato un carnaio senza più speranza, un dormitorio immenso dove giorno e notte erano uguali perché il mezzo milione di disperati restava disteso giorno e notte, spossato dall’inedia, stroncato dalla mancanza di cibo. Camminando dentro il campo, tra le povere tende strappate e i giacigli fatti di niente, ho parlato con coloro che restavano. I più stanchi erano immobili a terra, troppo stanchi anche per mettersi a sedere; chi aveva ancora un’ombra di forza era andato in giro a strappare l’ultima erba dalla roccia, e già i paioli bollivano sulla legna. “Mangiamo erba, come facciamo ormai da quindici giorni”, spiegava Rose-Marie Nimisagana, che soffiava sul fuoco per dargli fiamma. Accanto a lei aveva altre due famiglie: avrebbero mangiato tutti dalla stessa pentola, come solo i poveri sanno fare. Dunque, perfino nell’inferno di Mugunga, dove i bambini morivano come le mosche, e dove i cadaveri costava troppo fatica a seppellirli, è esistita la solidarietà. Il popolo dei disperati sapeva riconoscersi in una storia comune. “Ora aspettiamo che ci portino un po’ di aiuto”, mi dicevano. Ma i guerriglieri che comandano a Goma non hanno lasciato passare nemmeno un camion di cibo, o di acqua, o di medicinali. L’ordine è che i profughi debbano andarsene in Ruanda, e perciò con cinismo estremo si blocca l’assistenza anche a chi potrebbe salvarsi e invece muore. O in Ruanda o sotto terra, è la legge che è stata imposta.

E il lungo serpente umano si muove dentro la strada che porta alla frontiera. Ma ormai anche le decisioni dell’Onu di mandare qui diecimila soldati diventano inutili, tardive, un vero spreco di risorse e di energie. L’attenzione del mondo – ora che l’inferno di Mugunga si è svuotato – dovrà andare tutta ai disperati che sono sopravvissuti e che stanno marciando verso una storia senza speranza. In fondo a quella strada può esserci solo la morte, se l’ipocrisia e l’impotenza dei signori della Terra non si trasformeranno in un’assunzione reale di responsabilità. Nel muro compatto che si muoveva verso casa, una bambina disperata piangeva in mezzo alla folla che la superava indifferente. Si era smarrita, ho tentato di chiamare e gridare con lei, a lungo, inutilmente. Nessuno badava a noi, nel silenzio che ci contornava. Il nome della bimba è Murakateti. Non mandiamo soldati quaggiù, mandiamo qualcuno che possa ridare a Murakateti il papà e la mamma.