Ruanda – La frontiera della tragedia

“I miei figli addormentati nelle colline dell’orrore”

Reportage – La Stampa – 12/11/1996

GOMA DAL NOSTRO INVIATO Il puzzo lercio della morte se n’è fregato che in questi giorni il mondo badasse soltanto alle schermaglie della diplomazia, e che sul popolo dei morti fosse calato un silenzio distratto. Se n’è fregato, e ora è come una nebbia che si allarga uniforme su questa terra nera, sulle pietre di lava, sugli alberi spenti, sulla faccia grigia dei fantasmi che camminano nei sentieri ruvidi come anime senza vita. La morte ha un puzzo uguale dovunque, non conosce le frontiere; ma quando si passa il confine del Ruanda e si arriva da questa parte, in una terra che non sai più di chi sia, è come se la morte qui avesse voluto fare un suo cimitero per l’eternità, un cimitero diverso da ogni altro. Un cimitero nel quale perfino l’assuefazione dei giornalisti allo spettacolo delle morti tutte uguali si trasforma in rispetto, pudore, un silenzio senza più gara né cinismo.

La strada di Goma l’hanno riaperta ieri mattina, dopo una snervante lungaggine burocratica che sembrava ignorare le ragioni stesse della fretta che, dietro la sbarra del confine, spingeva il motore delle dieci camionette piene di medicinali. Sotto il sole che bruciava già il primo mattino, il piccolo convoglio della speranza si allungava immobile, e aspettava. Doveva essere l’avvio concreto di una rottura, di un cambiamento, nella lunga apatia che ha accompagnato la morte di massa della foresta del Kiwu. Da due settimane i potenti della Terra discutono, parlano, dibattono, si incontrano, anzi si rampognano. Ogni loro parola, ogni frase che hanno pronunciato, ogni discorso che hanno detto e ridetto, si porterà però addosso per sempre questo stesso puzzo lercio che qui copre la terra. Harah Karryta è arrivata alla frontiera mentre tutte quelle macchine bianche, lucide, eleganti, pulite, aspettavano di passare. Lei veniva dalla strada di Goma e a Goma queste auto invece volevano andarci. Lei veniva dalla morte, loro sono la vita. E le guardava con gli occhi sbarrati, sorpresa da quello spettacolo di ordine, di pulizia, di perfezione. Di eleganza. Harah non era sola, teneva appeso al petto un bimbetto di forse 2 anni; e dietro di lei, in una processione disperata, andavano la vecchia madre, il nonno tenuto da un bastone, e una ragazzina senza più età. Andavano lenti, piegati dalla fatica, e la faccia era fatta soltanto di occhi. Harah ha detto poche parole, in un sussurro che ha raccontato come si possa anche sopravvivere alla morte. La piccola processione sono dieci giorni che cammina, giorno e notte, nei sentieri perduti della foresta, seguendo le tracce della paura, l’eco degli spari, la battaglia che lanciava tra gli sterpi del sottobosco i cadaveri scomposti dalla violenza della guerra. In dieci giorni si fanno parecchie centinaia di chilometri, e Harah e la sua processione li hanno fatti tutti, camminando lesti nei sentieri scoperti della giungla, ributtandosi immediatamente dentro la foresta quando una voce o uno sparo annunciavano l’incontro con il pericolo. Hanno raccontato di come la speranza possa nascere e morire mille volte, anche in un solo giorno; e di come Fumyah sia morto di fatica, Laurent di diarrea, e come Andrè e Marie si siano lasciati andare sul bordo di un sentiero e non si siano più rialzati. “Sono morti in silenzio, pareva che dormissero. Forse stanno dormendo ancora”. Non è vero, non stanno dormendo. Andrè e Marie si sono trasformati ora in questo puzzo lercio che invade l’aria, qui, e segna per sempre la memoria della nostra generazione.

L’acqua è finita presto, troppo presto, poi anche il pane. L’acqua però l’ha mandata giù il Signore con le sue piogge, che sia benedetto. E del pane si può fare a meno, se si mangiano le cose della terra, anche le foglie, anche le patate crude, anche un vecchio uccello morto appeso a un ramo d’albero a testa in giù. Harah ha incontrato la gente della foresta, ha visto morti dovunque, ha avuto paura e terrore. Lei come tanti, come tutti. E guarda lontano, con le labbra arse. Se le chiedi dove siano, ora, quelle donne e quegli uomini incontrati in questi giorni che sono stati lunghi quanto tutta una vita, allora Harah fa un gesto stanco con la mano alle sue spalle, verso la foresta, e non dice più nulla. Harah si è allontanata lentamente, con quei suoi piedi nudi che parevano ormai di pietra. E il piccolo gruppo polveroso sfilava piano, accanto alle auto, lucide, orgogliose, ordinate, che aspettavano il via ronfando dentro i loro motori perfetti. Nessuno ha chiesto a Harah se aveva bisogno di bere, di mangiare, di un sorriso, di un conforto, di un poco di latte per quel corpicino solo ossa e pelle che teneva appeso al petto. Loro guardavano diritto in avanti, e sono scomparsi poi nella curva della strada, verso il Ruanda. I cartoni di cibo e medicinali che riempivano le camionette sono rimasti chiusi; i medici, gli infermieri, gli assistenti, i volontari, che stavano seduti sulle auto della nostra carità di uomini del mondo ricco se ne sono rimasti dov’erano, forse non lanciando nemmeno un’occhiata a quella processione polverosa che lentamente li incrociava e se ne allontanava. Sono le storie ordinarie della nostra follia quotidiana, ma certo resta difficile dimenticare l’indifferenza del convoglio, tutto proiettato verso il suo alto compito umanitario, e invece la miseria concreta, il bisogno immediato, piccolo ma reale, di aiuto e di assistenza che gli sfilavano accanto.

Goma oggi non è più la città di quindici giorni fa. Le strade si sono svuotate, i saccheggi sono ormai finiti; nell’ultimo tramonto, prima del coprifuoco, c’è ancora una coda frettolosa di gente che cammina tenendo in bilico sulla testa piccole montagne di tappeti. Sono le ultime razzie, ma davvero non c’è più nulla da prendere. E dietro il cancello del grande ufficio della cooperazione, si fermano ancora a sperare – però inutilmente – solo un centinaio di disgraziati in attesa di un aiuto qualsiasi. Le strade sono state ripulite, l’immondizia e i detriti sono ora raccolti da parte, in piccoli mucchi neri e puzzolenti. Le migliaia di banconote zairesi che coprivano le strade, strappate dalla cassaforte di una banca e ormai inutili, sono state portate via dal vento; restano soltanto quelle che il fango ha appiccicato alla terra. Goma è una città silenziosa, che non parla, che non fa rumori. È come se fosse morta anche lei. La morte in realtà la circonda da lontano, sta tutta nascosta nei campi e nei sentieri che si perdono dentro la foresta. E da dove poi il vento porta qui la nebbia leggera che al tramonto si stende su ogni cosa, come un sudario puzzolente, come uno sterminato obitorio che marcisca per sempre. I campi che stanno già dietro la periferia della città sono stati abbandonati, mostrano soltanto rovine, distruzioni, casupole sfasciate, legna e pezzi di plastica che prima erano tende, capanne, baracche. E la terra smossa racconta le fosse dove i corpi sono stati ora buttati, uno sull’altro, anonimi, uguali, morti per sempre. Però la foresta, intorno, conserva ancora i suoi segreti. Già al campo di Kibumbu, che sono soltanto 7 chilometri da Goma, da dietro gli alberi c’è qualcuno che spara, ci sono altri feriti, c’è una battaglia che rischia sempre di riaccendersi. I guerriglieri che si chiamano Esercito di liberazione – e che dicono di voler arrivare fino a Kinshasa, a distruggere il potere di Mobutu – possono però garantire un controllo soltanto limitato di questa terra: le strade, la città di Goma, una parte della foresta. Tutto quello che si nasconde dietro l’orizzonte fitto di alberi e di vulcano è oggi un territorio inesplorato, l’intrico di alberi e di sentieri è un mistero che nasconde un intero popolo in cammino sulla strada della morte. Anche per questo, forse, il piccolo convoglio che è finalmente entrato a Goma nel pomeriggio, dopo più di mezza giornata di attesa dietro la sbarra del confine, è finito in parcheggio, nell’erba bassa dello stadio di Goma. Guardato a vista da un gruppo di soldati con il mitra al braccio. Il problema vero è di capire chi potrà distribuire questo cibo, con quali modalità, in base a quali priorità.

L’assenza di un potere incontrastato, e le difficoltà di trovare sul territorio quel milione di uomini e donne che sta morendo ogni giorno di più, impaccia gli organismi internazionali, li fa diffidenti, incerti. Laurent Kabila, leader guerrigliero dell’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo- Zaire, ambirebbe a un riconoscimento di fatto del potere conquistato con le armi: vuole cioè che l’Onu e le Ong si pieghino a chiedergli l’autorizzazione di entrare nel Kiwu. Ma il Kiwu resta tuttora un pezzo di territorio dello Zaire, e c’è il rischio che la domanda formale di un organismo internazionale a Kabila comporti la violazione della sovranità dello Zaire. Emma Bonino, che per conto dell’Europa in questi giorni sta viaggiando tra Zaire e Ruanda, tentando una via d’uscita a questa trappola mortale, si ribella indignata: “Qui non è un problema di formalismi, qui c’è la gente che muore e il mio primo dovere è quello di evitare questo genocidio”. Le parole sono dure. Il suo tentativo avrà una verifica stamane, quando potrebbe passare il primo, vero, convoglio di aiuti, una cinquantina di camion da portare fin dentro le strade della foresta. Ma tutti i problemi di quindici giorni fa restano irrisolti: come fare a trovare il popolo della morte, nascosto nel profondo della giungla? Come convincerlo a rientrare in Ruanda, se ancora ha paura e terrore della vendetta tutsi? Come organizzare la distribuzione degli aiuti, se non si sa quale potere controlli davvero il territorio? Come evitare di mandare a morire i volontari dell’Onu e dell’Ong? Le risposte restano da trovare. E il puzzo della morte si allarga intanto nell’aria come una nebbia lercia, fa di questa terra il cimitero della nostra coscienza.