Ruanda – Coi profughi verso casa tra speranza e terrore

Reportage – Una tragedia africana – La Stampa – 17/11/1996

GOMA DAL NOSTRO INVIATO Ora Nibabwiri Rudiemanghebo è il primo della fila, a un passo soltanto dalla frontiera. Il Ruanda è già lì. Accanto a lui, e alle sue spalle, i profughi vengono avanti come muli, che la fatica ha privato di ogni umanità. E premono sulla piccola sbarra di confine come solo le bestie fanno, confuse, incerte, spintonate da chi sta subito dietro. Passano la frontiera alla media di tre o quattro al secondo. Sono duecento al minuto, più di diecimila l’ora. È un fiume ininterrotto, spaventoso, un brulicare polveroso di corpi senza più identità, che regge la fatica solo per questo desiderio disperato di passare finalmente dall’altra parte e chiudere per sempre l’eredità del terrore. Soffocato da questa massa incontenibile di disperati, il governo di Kigali ieri ha anche tentato di chiudere la frontiera. Voleva badare ad aggiustare, prima, i campi di accoglienza; ma il progetto si è spento subito, sotto la pressione dei profughi che si schiacciavano per superare il confine. E nessuno ormai li controlla, perfino i soldati assistono impotenti all’assalto del gigantesco termitaio umano che vomita vite senza storia sulla pietraia fangosa dove Zaire e Ruanda si dividono.

Il fiume si muove all’alba, alle sei, quando gli uccelli rompono in coro il silenzio della notte e i doganieri riaprono la sbarra; i primi sono già lì a premere, una barriera di facce mute con il bastone nelle mani e la casa sulla testa, e dietro di loro la fila è ormai senza più fine. Quando la sbarra viene riabbassata, al tramonto, e sono passate dodici ore, più di centomila profughi sono tornati in patria. I profughi erano più di un milione, questa odissea sarà ancora lunga. Ieri ho aspettato l’alba con loro. Non è stata una notte facile, pioveva e l’acqua ha anche calmato la sete di molti; ma ha trasformato in pozzanghera l’ultimo giaciglio di tutti in terra di Zaire. Nibabwiri Rudiemanghebo aveva il petto che gli tremava, forse per la fame o forse per il freddo. “Ma è vero, no monsiur?, che non ci faranno niente, e che metteranno in galera solo quelli che sono colpevoli in base a prove dettagliate”. Nibabwiri non ha più le scarpe, puzza come chi non si lava da qualche settimana, è un disgraziato; eppure la sua frase suonava elegante, precisa. E questo è perché la frase non era sua. Lui la stava ripetendo a pappagallo dalla radio dove l’aveva ascoltata, e dove l’hanno ascoltata in questi giorni altri centomila come lui. “Prove dettagliate”. Sono le parole alle quali tutti gli uomini che vanno rientrando in Ruanda appendono ora la loro speranza, confondendola con i loro desideri. Il presidente ruandese Binzimungo è andato fino al confine ad accogliere i primi arrivati, ed è stato messaggero di parole di riconciliazione; ma nelle sue galere ci sono già cinquantamila hutu, accusati di strage per un processo che forse non si farà mai. Solo la speranza dei disperati può consegnare l’illusione che ora occorrano quelle cose che dice la radio, “le prove dettagliate”.

Ora Nibabwiri passa la barriera, col suo vestito grigio e i suoi piedi nudi. Buona fortuna, amico. I tre figli gli stanno attaccati alla gamba, e non sanno più sorridere. La massa di facce anonime preme per entrare dall’altra parte. La bandiera del Ruanda pende triste, inzuppata anche lei dell’acqua della notte. Ogni uomo, anche ogni ragazzo, che passa la frontiera sa di consegnarsi come ostaggio al nuovo potere ruandese. Gli 800 mila tutsi ammazzati a colpi di machete due anni fa gridano vendetta; e in Africa la vendetta non ha mai trovato la strada del perdono. Storie tragiche dovranno ancora scriversi, su quest’angolo di un continente che qui la grazia dolce dell’altopiano e la luce dei laghi sembrava consegnare invece ad un destino felice. Le “prove dettagliate” sono l’impegno al quale l’attenzione del mondo è richiamata, ora che il ciclo del terrore appare prossimo a chiudersi. Ma la marea umana, intanto, veniva avanti, lenta, continua, un muro compatto di facce e di corpi bagnati di sudore. L’ho risalita fino al suo ultimo uomo in marcia, andando controcorrente su un’auto che penava a farsi strada, metro dopo metro, spezzando la fatica di coloro che avanzavano curvi sotto il peso e la fame. Il lungo fiume dei profughi aveva la sua coda a venticinque chilometri dalla frontiera, nella desolazione ormai del campo di Mugunga 2 abbandonato da quanti vi avevano vissuto in questi ultimi mesi. Il viaggio – una lenta discesa nell’inferno – è durato quattro ore, con una velocità che soltanto negli ultimi chilometri ha potuto essere più rapida di chi va a passo d’uomo. E lungo la strada, il muro di profughi in marcia si lasciava ai due lati almeno altrettanto disgraziati incapaci di continuare. Al chilometro 25, poi, il flusso si spegneva improvvisamente; ma non perché non vi fossero altri uomini in arrivo. Sotto la collina di Sake si combatteva e i soldati impedivano il passaggio. La battaglia è la continuazione dell’attacco che i guerriglieri zairo- ruandesi hanno portato, tre giorni fa, contro la milizia degli hutu; sconfitti in quell’assalto, gli hutu hanno dovuto lasciare via libera al mezzo milione di profughi che essi tenevano in ostaggio a Mugunga, e ora venivano attaccati vicino al villaggio di Sake, dove si erano trincerati per bloccare l’arrivo degli altri profughi dalla strada del Sud. Sulla collina di Sake salivano lentamente in aria le fumate bianche dei colpi di mortaio; e il tiro della fucileria, nella pianura, raccontava che lo scontro era aspro, e sarebbe durato a lungo.

Nel viaggio angosciato che abbiamo compiuto dentro la massa compatta di uomini in fuga verso la nuova vita, non abbiamo incontrato un solo camion dell’Onu o delle Ong, mentre attorno a noi sfilavano situazioni disperate, al limite ormai della morte. Bambini affondati nella diarrea e totalmente disidratati. Uomini che stavano dando l’ultimo respiro, abbandonati sulla strada. Vecchi spenti, senza più una risorsa da recuperare. Donne che chiedevano aiuto, piangendo, disfatte dal colera. Piccini abbandonati dai genitori e che se ne stavano sul ciglio dell’asfalto, là dove la strada diventava erba, immobili, senza più una parola, senza più una lacrima. Nel pomeriggio abbiamo chiesto al portavoce ufficiale del Commissariato dell’Onu per i rifugiati le ragioni di questa drammatica assenza. Il signor Wilkinson ha detto che a lui non risultava che ci fosse gente che stesse morendo al bordo della strada. Le tre camionette del Commissariato che ieri pomeriggio erano in giro per Goma – ciascuna con a bordo il solo conducente – avrebbero fatto meglio il loro lavoro se fossero state portate in mezzo ai profughi a raccogliere quelli che stavano morendo sulla strada, e che un aiuto avrebbe certamente salvato. Abbiamo dovuto farlo noi giornalisti, che abbiamo caricato le nostre auto di poveri bimbi disidratati, o orfani, o fortemente malati. Rinunciando per mancanza di spazio a caricare altra gente che pure sapevamo di condannare a morte. È stata una scelta che non sarebbe toccata a noi. Vergogna per chi non c’era.