“La mia prima guerra fu il Libano”

Mentre l’attenzione del mondo è tornata a puntarsi sul Libano, dopo la drammatica esplosione dell’altro giorno, abbiamo ritrovato il racconto dell’arrivo di Mimmo nella tribolata area, che frequentò da inviato speciale molto a lungo, come qui racconta nel dipanarsi di un dietro le quinte della sua prima volta in guerra 

“La mia prima guerra fu il Libano”,estratto da “Dal nostro inviato in guerra” di Mimmo Candito, ed. Theoria 1997

“Fu una settimana dura, per uno che una guerra l’aveva vista solo al cine”

La guerra del Libano andò avanti dal ’76 al ’90. In quindici anni, se dovessi sommare tutto il tempo che passai laggiù, a volte settimane, a volte uno o due mesi, credo che supererei il conto di un paio d’anni. 

Ci arrivai la prima volta alla fine del ’76, quando gli scontri fra gruppi confessionali avevano lacerato il vecchio tessuto nazionale ma non erano diventati ancora un conflitto generalizzato. Beirut, però, era già spaccata in due. I Palestinesi stavano a Ovest, nei quartieri dei grandi alberghi e della vecchia Rue de Hamra, elegante e sofisticata. A Est, dominavano i maroniti. Il filtro fra le due Beirut era lento, e per un giornalista il passaggio della “frontiera” non era ancora un’impresa rischiosa.Ci arrivai che si stava combattendo la guerra degli alberghi. Fu una settimana dura, per uno che una guerra l’aveva vista solo al cine. La sera, quando rientravo nella mia stanza, al vecchio Bristol, sentivo le camionette che passavano nella notte senza luce, e gli spari che tagliavano il buio. Avevo paura. Ci mettevo un sacco di tempo, ad addormentarmi.Ma di giorno la guerra sembrava un’altra storia. E quando c’era una fase di stanca, andavo a giocare a pallacanestro nel cortile dei frati che stavano vicino a rue Verdun. Erano partite senza spettatori, in una città muta.Un giorno un frate mi diede una gomitata, a un rimbalzo sotto canestro, e mi ruppe gli occhiali. Andai da un ottico, mi cambiarono le lenti in un giorno. Beirut, durante la guerra, è sempre stata così: che in un angolo di strada c’è qualcuno che spara, e nell’altro angolo magari prendono il caffè e leggono il giornale. A Sarajevo non sono mai stati pazzi come i beirutini.

Les événementsLa guerra, i residenti francesi di Beirut amavano chiamarla “les événements”. Era come esorcizzarla, fingere che non ci fosse. Avevo fatto amicizia con alcuni di loro; m’invitavano a casa, mangiavamo foie gras e mezeh libanese. E alla radio seguivamo l’andamento della battaglia, in diretta. Talvolta andavamo anche sul balcone, al tredicesimo piano, per guardare i combattimenti dall’alto. Mi dava sempre la sensazione che per loro fosse una sorta di aperitivo.Poi però la guerra si fece generalizzata, e le due Beirut diventarono aree “confessionali” omogenee. La guerra-spettacolo cedette allo spettacolo della guerra.L’ultimo a cadere fu il campo palestinese di Tall al Zatar, la collina del timo, dopo un assedio dei maroniti che durò quasi quattro mesi… A quel tempo  l’aeroporto di Beirut era chiuso e si poteva passare soltanto dalla Siria. Ma a Damasco nicchiavano, c’era aria brutta; avevano appena impiccato quattro “spie sioniste“ in una piazza che sta accanto all’albergo. Uno degli agenti di Al Mukhabarat che mi controllava diceva di essere un giornalista anche lui e voleva intervistarmi per radio Damasco.

Accettai, se lui prometteva di aiutarmi ad avere il visto per Beirut. Disse di sì, e tirò fuori di tasca un registratore; ma poi l’intervista era tutta di domande su Israele e su una lobby ebraica in Italia. lo interessava soprattutto il mio giornale, La Stampa, perché diceva di non capire come potesse esserci una partecipazione proprietaria di Gheddafi – che è notoriamente un mangiaebrei – e un direttore di religione ebraica, Arrigo Levi. Cercai di spiegargli, ma non capiva. O fingeva. E faceva altre domande su Gheddafi e su Levi. Quando ci salutammo, non sembrava molto soddisfatto. Infatti il visto arrivò soltanto 10 giorni dopo (e quanto alla intervista, giurerei che radio Damasco non l’ha mai trasmessa). Calammo a Beirut con due auto. Avevo fatto amicizia con il corrispondente della rete due tedesca, Heinz Kinzley, e decidemmo di tentare insieme la sorte. Lui aveva la sua truppa, l’autista Rolando Kreutz e il cameraman Alain Debos (che aveva lavorato con la Cbs nel Vietnam); io avevo Mohammed, che non era il profeta ma doveva essergli comunque uno stretto parente. Perché Mohammed guidava la sua vecchia 504 come neanche Fangio quando era ubriaco, eppure riuscimmo ad arrivare a destinazione. Mohammed guidava a piedi nudi, e cantava le canzoni che sentivamo alla radio. La radio andava a tutto volume, Mohammed ancora di più. Fu un viaggio indimenticabile.Quando, dall’alto della montagna che sta sopra Beirut, finalmente vedemmo il fumo delle cannonate che si sparavano dentro la città, mi parve una liberazione.