La grande fuga da Kinshasa
Paura di golpe, gli occidentali scappano
Reportage nella finta capitale dell’ex Congo – La Stampa – 05/11/1996
KINSHASA DAL NOSTRO INVIATO “Brutto segno”, e scuote la testa Josephine, la ragazza bantu che sulla vecchia scrivania dell’agenzia di viaggio sta ammassando una pila di biglietti tutti uguali. I bianchi cominciano a scappare. Bimbi e donne riempiono ora gli aerei, per Bruxelles, Parigi, Johannesburg, Nairobi, dove che sia ma purché sia un posto con altri bianchi, o comunque un posto sicuro, con gli africani buoni. L’aeroporto di Kinshasa, che normalmente sembra un vecchio mattatoio in disuso, con le piastrelle lerce e le gabbie di metallo, ora è diventato un vecchio mattatoio pieno di teste bionde e di guardie del corpo nere, con la faccia dura e il mitra puntato. Tutti hanno paura di tutto, e la paura è contagiosa. Comincia la grande fuga. Tira aria brutta, ora, a Kinshasa. Aria di rivolta che nessuno possa più controllare, dopo i saccheggi e gli assalti alle case dei ruandesi, dopo i linciaggi nelle strade. La violenza si stringe in una spirale che al prossimo giro potrebbe segnare la caccia all’uomo bianco. Ancora e soltanto paura, i due mondi si camminano accanto senza incontrarsi; però nell’inconscio collettivo si muovono immagini di sangue che sempre recuperano la vecchia ombra degli odii razziali. E allora è meglio filarsela fin che c’è tempo, dice l’inconscio; si può sempre rientrare. Il turno tocca alle donne e ai bambini, ma è bastato che la decisione la prendessero in dieci e già il viaggio per l’aeroporto, con la scorta, è diventata una processione che nessuno la ferma. “Novantasette prenotazioni in due ore”, e scuote la testa, Josephine. Eppure la guerra con il Ruanda era già chiusa. È stata una guerra-lampo, che era appena cominciata e già è finita. Una sconfitta vergognosa su tutto il fronte, un’onta che lo Zaire avrà duro da recuperare.
I miliziani ruandesi avanzavano sparacchiando, e i soldati zairesi scappavano senza nemmeno voltarsi. Pollicino ha sconfitto il gigante, e ora il rancore si spande sul Paese, destabilizza i vecchi equilibri, riaccende una crisi che rischia di travolgere anche il vecchio potere immobile di Mobutu. I bianchi sono stati una quota importante di questo potere, lo hanno retto a lungo, e a lungo ne hanno sfruttato le debolezze, la voracità. La corruzione. Ieri ho pranzato con un colonnello dell’esercito, un pasto frugale, come tocca ai militari. Stavamo in riva al grande fiume, che scorre ampio e lento come un vecchio padre; pioveva la pioggia fitta delle stagioni tropicali, e sulla tettoia di paglia del capanno – tra gli alberi antichi e silenziosi – le gocce risuonavano piano. Il colonnello ha allungato la mano verso la riva del Congo, e ha fatto un disegno lento nell’aria, accompagnando il corso della corrente, da destra verso sinistra. Sull’acqua colore della terra scorrevano grandi tronchi nodosi, con i rami puntati verso il cielo, e macchie di arbusti che galleggiavano e affondavano nei gorghi lenti. “I bianchi sono come questo fiume, che scorre sempre e non finisce mai – ha detto il colonnello -. Noi, l’Africa, siamo invece come quei tronchi strappati dalla foresta, che la corrente porta via”. Era un uomo triste. Se invece di farci queste meditazioni amare in un Paese che non c’è, fossimo stati in qualsiasi altro posto del mondo, non avrei raccontato un pranzo in riva al vecchio fiume ma un colpo di Stato. I militari sono furiosi, travolti dalla vergogna. Il capo di stato maggiore, il generale Eluki Monga Aundu, ha tirato tutta la sua rabbia fuori dai denti: “Abbiamo dovuto combattere senza armi. E se sei senza armi, anche un ragazzino con un fucile ti può sconfiggere.
La colpa è tutta del governo, siamo un esercito sconfitto dalla incapacità della classe politica del Paese”. In qualsiasi altro posto, questa sarebbe stata una dichiarazione di presa del potere. Ma lo Zaire è un posto che non c’è. Dicono che il generale Eluki somigli a Lebed. È soltanto una somiglianza, perché questo generale nero sa di comandare un esercito di piedi nudi. E senza scarpe non si fanno i colpi di Stato. Il colonnello triste con cui ho pranzato aveva la pistola nella fondina. Ho potuto vederla. Non sono molti, nello Zaire, gli ufficiali che portano la pistola; e quanto ai soldati, la gran parte non hanno nemmeno la fondina, e il resto va in giro con la fondina vuota. Se qui ancora non c’è stato un colpo di Stato, non è soltanto per la fedeltà a Mobutu. A frenarne l’esplosione è, semplicemente, il conto delle forze in campo; meglio ancora, è il numero delle fondine con la pistola. L’esercito non ha armi, non ha potere reale, non ha forza. Le fondine piene sono soltanto quelle della guardia civile comandata dal generale Baramoto, e 15 mila uomini scelti della guardia presidenziale. Ma qualcosa si muove.
La partenza di Mobutu da Ginevra è stata seguita qui con il fiato sospeso, per capire dove avrebbe volato l’aereo che lasciava la Svizzera. In quel momento il governo era riunito in seduta straordinaria, e la seduta è andata avanti per 4 ore, aspra, segnata da forti contrasti. Quando si è saputo che Mobutu era atterrato a Nizza, si è capito subito che il presidente non intende affatto rinunciare al potere. E il governo ha fatto conoscere un proclama che è ad un passo dalla dichiarazione dello stato d’assedio: 1, proibizione di ogni manifestazione pubblica; 2, rafforzamento delle pattuglie militari nella capitale; 3, ordine di sparare a vista contro chi compia atti di vandalismo o di violenza. Per stamattina era stata organizzata una “manifestazione di studenti”. Se, anche dopo il proclama del governo, gli “studenti” scenderanno comunque in strada, chi ha un fucile potrebbe sparare. La crisi rischia di precipitare. Nella notte arrivava il colpo di scena: Mobutu annunciava a sorpresa un rientro immediato in patria. La resa dei conti ora è vicina.