Il braccio legato dietro la schiena

C’è stato un tempo in cui l’informazione condizionava davvero i comportamenti del Potere, e il Potere metteva in atto le prime difese. Ce ne parla Mimmo Càndito in un brano del libro antologico “Il braccio legato dietro la schiena”.

Quando il generale Schwarzkopf in partenza per il Golfo, nell’estate del ’90, si presentò alla Casa Bianca per salutare George Bush, comandante in capo della guerra che si stava preparando per liberare il Kuwait, il presidente degli Stati Uniti accomiatò il suo generale con una frase ch’era già un progetto organico, il disegno d’una vera strategia: “E ora mi raccomando, caro Schwarz, faccia in modo che non dobbiamo combattere più con un braccio legato dietro la schiena”. Quel “braccio legato” era il risultato del racconto che del conflitto in Vietnam avevano fatto i corrispondenti di guerra, il massacro di My Lai, la mancanza di una strategia convincente, lo stolido gap di una guerra asimmetrica tra i bombardieri a stelle e strisce e le tattiche di guerriglia dei vietcong: scossa, turbata, angosciata da quei marines morti che vedeva apparire ogni giorno nel televisore di casa, la società americana s’era mobilitata a chiedere il ritiro dei G.I. Men, condizionando perciò drammaticamente la condotta militare e le scelte politiche della Casa Bianca. Ora il Presidente chiedeva una strategia nuova.

L’ebbe. Si chiamava “News management”, gestione delle notizie. Cioè controllo dei flussi informativi a monte, nella fase della produzione ancor prima che in quella dello scambio con i mass media. E questo vuol dire che oggi non si lancia l’attacco di una guerra se, prima, non si è messa a puntino la macchina informativa che deve saziare in modo addomesticato la bulimia dei giornali e dei telegiornali: da quei giorni di Schwartzkorpf gli eserciti hanno imparato a ingaggiare le più importanti agenzie pubblicitarie (lo fanno gli americani ma ormai lo fanno tutti – Milosevic se ne servì spudoratamente nella guerra del Kosovo) , montano con il loro aiuto apparati semiclandestini di “disinformazione”, e soprattutto preparano come per una recita teatrale la routine delle conferenze stampa quotidiane, dalle quali viene poi fornita la versione ufficiali dell’andamento della guerra.

In Qatar, nei mesi dell’ultimo assalto a Saddam Hussein, il tendone che raccoglieva i giornalisti per il briefing con il comando americano, ricreava una messinscena hollywoodiana, pensata, disegnata e gestita, come il set d’un remake del vecchio Lawrence d’Arabia; a organizzarla erano stati chiamati autentici scenografi di Hollywood, ingaggiati proprio per la loro capacità di contribuire credibilmente a trasformare in realtà la finzione.

A questo punto, il fotogramma di William Russell, il primo corrispondente di guerra della storia, sul fronte in Crimea, e quello di Monici, della Botteri, di Negri, di Chierici, sul fronte di Baghdad o su quello di Kabul, ormai non combaciano più.