I 40 anni di Sabra e Shatila nel ricordo vivido di Mimmo (e ciò che successe in redazione)

La settimana scorsa, Il Manifesto ha pubblicato la cronaca della commemorazione della strage di Sabra e Shatila, alle porte dell’abitato di quest’ultima. Furono due giornalisti italiani, Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, a volere fortemente negli anni seguenti un memoriale che non si sa se sarà destinato a rimanere, per ricordare le vittime del massacro (“forse tremila”, scrive Mimmo qui sotto) compiuto fra il 16 e il 18 settembre del 1982 dai Falangisti libanesi con la complicità dell’esercito israeliano che circondava i due campi profughi palestinesi. 

Michele Giorgio, presente alla cerimonia, racconta su quello stesso quotidiano di un prato verde sommerso di corone di fiori, circondato da acquitrini di acque di scarico lungo la strada principale. Shatila non è molto cambiata, di Sabra resta solo una parte. Di questi 40 anni si sono ricordati in pochissimi, nel mondo. E’ ancora Giorgio a spiegare sul Manifesto che la famiglia libanese proprietaria del terreno vorrebbe venderlo, e italiani si stanno attivando con l’aiuto del Sindaco per una raccolta fondi che consenta di mantenere intatta la memoria con la costruzione di un mausoleo. Il mondo, sembra dire tanto silenzio, si vergogna ancora della propria crudeltà. M’immagino quel che avrebbe potuto scrivere Mimmo, se ancora fosse vivo. Ma qui sotto troverete il suo ricordo nitido, drammatico nei particolari e nell’incedere, scritto per il blog “Il villaggio quasi globale” che egli teneva su La Stampa online. E’ stato vergato nel 2014, e mai né prima né dopo ne uscì altro intero, che io ricordi, sulla carta stampata. L’articolo febbrilmente buttato già al ritorno in albergo da quel viaggio dell’orrore a Sabra e Shatila, nel settembre ’82, fu mutilato su La Stampa per motivi che non furono mai chiari. Si disse che la notizia della complicità dell’esercito di Israele dovesse essere approfondita. In realtà Mimmo, dopo aver visto il suo giornale che un collega appena arrivato aveva portato con sé, con un pezzo dell’Ansa in prima pagina e con una sola parte del suo reportage all’interno, chiese alla Direzione il permesso di rientrare in sede: se fosse rientrato senza permesso, mi spiegò poi, ci sarebbero stati gli estremi per un licenziamento. Il direttore dell’epoca Fattori traccheggiò, lo invitò a ripensarci attribuendo la sua decisione al turbamento per quanto aveva visto. Ma Mimmo insistette e tornò a casa fortemente teso. Per la cronaca, pagò quel gesto con tre anni assoluti di silenzio. Non gli fu più chiesto un articolo. Solo l’arrivo di Gaetano Scardocchia alla direzione, alla partenza di Giorgio Fattori, gli permise di tornare al lavoro. Ma se volete sapere tutto su quei due giorni maledetti nei campi palestinesi, Mimmo li ha ricostruiti così, sul suo blog. Come se fosse appena tornato da lì. Erano passati 32 anni.

La strage di Sabra e Shatila

MIMMO CÀNDITO – 12 Gennaio 2014

L’informatrice, Rita, arrivò all’albergo poco dopo l’alba. “Pare si possa passare”, sussurò che nessuno sentisse. Lei stava con un siriano che stava con i palestinesi; e sapeva tutto. Svegliammo l’autista, partimmo subito; Rita sedeva muta in un angolo. Erano tre giorni che di Sabra e Shatila, i due più grossi campi dei palestinesi, non si sapeva più nulla; solo qualche raffica di mitra raccontava che a Beirut, comunque, si stava ancora facendo la guerra. Però da laggiù, niente.

In quell’estate calda dell’82, l’esercito di Sharon aveva attaccato con una forza d’urto massiccia, lunghe colonne di carri e di blindati, aerei, forze speciali, migliaia e migliaia di uomini che avevano chiuso a tenaglia su Beirut. La chiamavano “Operazione Pace in Galilea”, perchè chi fa la guerra mette sempre le mani avanti e dice che lo fa per la pace.

Ma la pace in quei giorni aveva trasmigrato. Con una bomba sotto la scrivania, avevano appena ammazzato Bashir Gemayel, capo della Falange maronita, ma anche nuovo presidente del Libano e, soprattutto, l’uomo d’Israele. Tutti dicevano ch’erano stati i palestinesi, bisognava far piazza pulita. Ma intanto era intevenuta l’Onu, e 15.000 fedayin se ne poterono andar via con le loro armi in (un nuovo) esilio scortati dai marines col mitra spianato e anche dai nostri bersaglieri e dai legionari di Parigi. Nell’inferno sporco e puzzolente dei campi profughi restarono, in gran parte, solo le donne e i vecchi; poi, però, anche i marines e i bersaglieri e i legionari se ne tornarono a casa, e Beirut, allora, fu tutta nelle mani di Sharon (sì anche dei maroniti, e dei morabitun, e di Amal, e dei drusi di Jumblatt; ma quello che conta era che c’erano a tenaglia i carri di Tsahal e i suoi soldati con la kippa. E loro erano la guerra e la pace).

Entrare nei due campi non fu facile: c’erano carri di David a ogni incrocio, e soldati israeliani, e blindati con la stella gialla. L’autista però conosceva i vicoli puzzolenti della città come casa sua, e riuscì a far fessi i guardiani. E ci trovammo nell’inferno degli uomini.

In un silenzio che anche i passi sulla terra battuta parevano un oltraggio, le piccole case di fango e di legno erano diventate cimiteri muti d’una strage senza perdono. C’erano cadaveri ovunque, soprattutto quello che restava di corpi che, prima, erano stati donne e bambini. Le donne, oscene nella violenza di cosce nude squarciate dallo stupro, le gonne tirate su di strappo fino alla gola, le bocche dilatate in un urlo che ancora l’eco pareva sospeso nell’aria; i bambini, macchie di carne nera che il caldo putrefaceva, qualcuno ancora infilzato da un coltellaccio, molti ridotti a brandelli senza profilo. Le mosche ronzavano avide sui cadaveri sparsi, Rita aveva gli occhi sgranati che nemmeno parlavano.

Incontrammo qualche vecchia che piangeva in silenzio, e vagava senza parole. C’erano solo i cadaveri e loro e nessun altro.

Quel 18 settembre, Sabra e Shatila, era uno sterminato puzzolente cimitero all’aperto, dove gli 8 o 9 reporter europei e americani che, soli, riuscimmo a entrare nei campi ci facemmo raccontare da quelle vecchie impietrite un massacro che era andato avanti ininterrottamente, giorno e notte, per più di 36 ore.

Il pomeriggio del 16 settembre, Sharon aveva messo i suoi carri e i suoi uomini tutt’attorno ai due campi, che nessuno ne entrasse e nessuno ne uscisse. Poi aveva dato il via libera ai falangisti, che avevano trasformato la loro vendetta per la morte di Gemayel in un autentico genocidio, lavorando di coltello e poi di kalashnikov, indisturbati, meticolosi, casa per casa, anfratto per anfratto. Ne ammazzarono, forse, 2.200, o forse 3 mila; ma sono conti che le fosse comuni si sono portate via con sé.

Beirut, quel giorno di settembre, restò isolata, non c’erano telefoni che funzionassero, né telex. Noi reporter andammo a dettare i nostri articoli da un centro comunicazione militare che Sharon aveva montato su, in collina, a Baadba. Ci concessero un ponte-radio con Gerusalemme, e le centraliniste furono gentilissime anche se al Comando sapevano bene che cosa stessimo raccontando al mondo. Qualcuno di noi piangeva mentre dettava, nel buio della notte che ormai ci era scivolata addosso.

Sharon dovette sottostare a un’inchiesta internazionale, e fu condannato per avere autorizzato quelle 36 ore dell’inferno in terra. Poi lasciò l’uniforme, e passò a fare il capo di governo.