Così Mimmo racconta nel suo blog come arrivò a Kabul a 3 mesi dall’11/9 (e la fatica di fare una doccia gelata)
E’ davvero come un nastro che si riavvolge, quel che è successo in questi giorni in Afghanistan. I taleban hanno ripreso il Paese, Kabul è da ieri sotto il loro controllo, le delegazioni straniere fuggono: e manca meno di un mese alla ricorrenza del ventesimo anniversario del devastante attentato alle Torri e non solo, l’11 settembre del 2001.
In questo post del 2017 sul blog “Il villaggio (quasi) globale” che veniva pubblicato su lastampa.it, Mimmo rievoca l’arrivo a Kabul nel novembre 2001, con il suo inconfondile stile. Non è un articolo, ma un racconto denso di particolari rimasti vividi. Tanta fatica di tutti, tanti morti, miliardi spesi, e si ricomincia terribilmente con la jihad....
Quando arrivai a Kabul in guerra
Quindici anni fa, giusto in questi giorni, in Afghanistan si combatteva, c’era la guerra.
Quel 15 novembre del 2001, arrivai a Kabul da Jalalabd che le ombre erano giá lunghe, e il sole si accucciava veloce dietro le montagne blu. Ci sono soltanto 146 chilometri da Jalalabad a Kabul, ma ci vollero quasi otto ore, su una strada sfondata dai tank e dal gelo.
A Jalalabad, giá in Afghanistan, c’ero arrivato orgogliosamente la sera prima con un’impresa ch’era parsa eroica. Avevo guidato attraverso la frontiera un convoglio d’un migliaio di reporter d’ogni angolo del mondo, dopo ch’ero riuscito a convincere il potente nipote di Abdul Haq a darci una scorta armata: sebbene da alcune settimane si combattesse in Afghanistan sotto le bombe americane, l’armata dei media era stata obbligata a starsene in Pakistan, a Peshawar, ad appena un passo dalla frontiera, perché al cancellone di ferro del Kyber Pass ci rispedivano sempre indietro, tutti, perfino le potenti macchine mediatiche della Cnn e della Bbc.
Ma Rahim, per chissá quale simpatia, alla fine aveva accettato di mettersi al mio fianco a capo di un convoglio armato: si fidava di me, e anche lui voleva rientrare in Afghanistan, la sua terra. E lui era il rampollo della famiglia piú potente di Peshawar, nessun cancello gli si poteva chiudere in faccia. Superammo il Khyber Pass ch’eravamo una banda internazionale d’ogni lingua, unita solo dalla brama furente di entrare finalmente in guerra a raccontarne la storia.
Arrivammo a sera a Jalalabad; la cittá era stata appena liberata dai talebani e c’era festa per strada, e spari in aria, e abbracci di tutti con tutti. Ma subito ci dissero che anche Kabul era libera, perché i talebani erano scappati nel buio senza combattere.
Decisi che avrei scritto subito il mio reportage da Jalabad liberata e peró all’alba sarei partito per Kabul. Cercavo compagni di viaggio, Rahim lo seppe. Entró nella stanza della topaia dove avevo trovato rifugio (e un generatore funzionante) ed era con suo zio, il comandante della piazza di Jalalabd. Brusco, Haji Khadir mi puntó il dito: “Non puoi partire. La strada per Kabul é un inferno di talebani. Se vai, é un suicidio. Ti ammazzano di sicuro”.
Feci la conta di chi, tra i miei compagni, votava per partire: ero l’unico. Mi bruciava dannatamente rinunciare. Dormii quasi nulla.
Al mattino, all’alba, tirandomi fuori dal sacco a pelo, uscii sul portone della topaia per annusare l’aria in giro. E vidi il van della Bbc carico di bagagli, pronto a partire, anche se la sera prima avevano votato per il no.
“Devo andare – mi disse Bill, il giornalista della Bbc – devo andare, a Kabul c’é la Cnn, mio concorrente, che é arrivato dal nord. Mi tocca”.
La sera prima, mi avevano detto che a Kabul c’era anche l’inviato del “Corriere della Sera”, arrivato anche lui tranquillamente dal nord, dopo che i talebani ne erano scappati. Come per la Bbc, toccava a me ora: dove c’é il “Corriere” non puó non esserci “La Stampa”.
Presi la sacca, e via. Le ragazze piangevano, le spagnole, le argentine. “Vi ammazzeranno”. Con loro c’era anche Maria Grazia Cutuli, si giustificó: “Partiró tra qualche giorno, ora é troppo pericoloso”. L’ammazzarono dopo tre giorni dal mio arrivo a Kabul, quando nessuno parlava piú di suicidio se ti mettevi in strada.
A Kabul, il mio autista – un giovane avvocato disoccupato di Jalalabd, ingaggiato per caso – mi portó in un’altra topaia: ma c’era poco da scegliere, il coprifuoco era arrivato con il buio della sera e dovevamo fermarci. Comunque, c’era un letto, uno anche per lui. Naturalmente non c’era acqua, e la luce la dava un generatore.
Il silenzio di Kabul era rumorosissimo, una pece nera chiudeva ogni orizzonte. Soltanto il latrato di mute di cani spezzava a tratti la notte.
Furono giorni di lavoro duro, tra gente inquieta e diffidente; mi dicevano: “Ora siamo piú liberi, ma con i talebani c’era ordine e pace. Speriamo che continui”, e scuotevano la testa. I barbieri – una sedia e una bacinella, lí, sul marciapiede – tagliavano le barbe degli uomini, sorridendo. Dai rami degli alberi pendevano i nastrini delle musicassette che i talebani avevano proibito, e al mercato i contadini avevano poche verdure da vendere e appena qualche frutto. Mancava tutto.
Chiuse dentro i loro burqa azzurri, le donne agli angoli delle strade tendevano la mano per un’elemosina.
La mia stanza aveva le pareti macchiate da grandi strisciate di sangue, nessuno mi volle spiegare. Dormivo vestito, su un vecchio sofá che comunque valeva un letto.
Il mio avvocato-autista, che era di Jalalabad, peró a Kabul aveva un sacco di parenti, e fu una fortuna: al mercato nero mi procuró in poche ore un vecchio generatore a benzina, e carburante quanto ne volevo. E fu uno scialo: potevo scrivere sul computer a piacimento, e ricaricare senza angoscia il mio telefono satellitare.
Si mangiava riso, il pollo nel giorno di festa. Buono.
La prima doccia la feci dopo 13 giorni, pagando una ricca mancia a un giovane inserviente che mi procuró l’acqua, non so come. L’acqua, fredda, naturalmente, gelata, cadeva da un cassone di metallo, con un buco maltappato; eravamo ormai a dicembre, e c’erano 3 o 4 gradi. Urlavo di dolore per il gelo che l’acqua mi scaricava addosso, ma ero felice di essere pulito.
Al giornale, peró, queste erano storie che non interessavano.