Cameriere, tenore, stewart e grande amico di Mimmo
Addio a Ettore Mo, decano degli inviati di guerra

L’ultima volta che ho visto Ettore Mo è stata 5 anni fa, quando è venuto al funerale di Mimmo e come altri colleghi ha parlato di lui, con il suo stile semplice e asciutto, durante la cerimonia.
Mimmo mi parlava spesso di Ettore, con il quale ha passato i suoi primi anni di inviato sui fronti più caldi del pianeta, fra Iraq, Afghanistan e altri territori dove bollivano pericoli che le vicende di questi giorni ci riportano alla mente. Ettore era piccolo piccolo, Mimmo alto alto, e formavano un formidabile “articolo il” che aveva in comune la passione per quel loro mestiere, per la verità a tutti i costi, e il disprezzo per i furbastri che nel comodo albergo e lontano dal fronte, aspettavano il loro ritorno per sentirne il racconto.  

Me li immagino insieme nel cielo degli inviati di guerra.
Qui un ritratto di Ettore dal Corriere della Sera, scritto da un loro collega, Lorenzo Cremonesi.

Marinella Venegoni

Detestava i sotterfugi, le scorciatoie, i furbetti che dicono di essere arrivati prima sul luogo della storia e invece se la inventano di sana pianta aggiungendo di fantasia, copiando dalle agenzie comodamente seduti nellecamere di albergo. Scriveva con i suoi ritmi, odiava la fretta dello scoop, ma poi, quando arrivava il suo articolo, capivi che era fatto di cose viste e vissute, condito di particolari inaspettati, magari contradditori, però veri, onesti, indubbiamente verificati di persona. E si arrabbiava quando in Direzione non ascoltavano le sue proposte, protestava a modo suo, irrompeva nella sala della riunione di redazione a sottolineare l’urgenza di andare, partire, recarsi sui posti per raccontare. Non gli importavano i soldi, le sue note spese erano sempre in ritardo e carenti, certamente non faceva “creste”, anzi, semmai metteva del suo, perché per lui il giornalismo e soprattutto il mestiere di inviato non era una professione come le altre, ma una sorta di missione, d’impegno totale e totalizzante al servizio del giornale, ma soprattutto del lettore e della necessità inderogabile di testimoniare.

Scriviamo queste righe di getto, a caldo, appena ricevuta la notizia della morte a 91 anni di Ettore Mo, platealmente definito uno degli ultimi “tra i grandi inviati” del giornalismo italiano e firma di prestigio per decenni del Corriere della Sera. Amava raccontarsi, spesso accompagnato da un bicchiere di vino, che – diceva – lo aiutava a “sciogliersi”, a mettere in moto le ali della creatività. Una sera a Gerusalemme, si era ai tempi della Prima Intifada tra la fine del 1987 e il 1988, dopo avere scritto il reportage dai campi profughi palestinesi in fiamme, si dilungò nel ricordare i suoi inizi.

Era nato a Borgomanero nel 1932, aveva finito il liceo classico e si era iscritto a Lingue e Letterature Straniere a Ca’Foscari, una delle facoltà più note dell’università di Venezia. Ma presto si era accorto che la vita universitaria non faceva per lui. Senza un soldo aveva iniziato a viaggiare: Parigi, Madrid, Amburgo, sino a Londra. Si manteneva con lavoretti: cameriere, lavapiatti, steward. Quella sera a Gerusalemme si attardò con la memoria sulle sue esperienze come steward su una nave della marina mercantile britannica. «Non mi trattavano male, ma c’erano lunghe ore di tedio che cercavo di colmare leggendo tutto ciò che trovavo a tiro», diceva. 

Nel 1962, a 31 anni, si presenta al corrispondente da Londra per il Corriere, che allora era Piero Ottone, per offrirsi come collaboratore. Alla direzione piace subito il suo stile diretto, l’amore per il racconto vissuto sul campo. Lo richiamano a Roma e Milano, poi nel 1979 riceve il primo incarico da inviato per gli Esteri. Il direttore Franco Di Bella gli dà fiducia: la storia è importante, siamo nel mezzo della rivoluzione iraniana e l’Ayatollah Khomeini è appena tornato a Teheran

Ettore si tuffa nella grande politica internazionale. Pochi mesi dopo è folgorato dall’amore per il suo lavoro quando raggiunge l’Afghanistan. Inizia a seguire la guerra tra le brigate dei mujaheddin contro l’esercito d’invasione sovietico. E qui nel 1981 incontra uno dei personaggi che lo hanno più affascinato nella sua lunga carriera. Intervista Ahmad Shah Massud, il “leone del Panshir”, il leader laico delle milizie locali tagike che vogliono scacciare i russi e però sono contrarie ai gruppi radicali islamici pashtun che ben presto formeranno il nocciolo duro delle formazioni militari talebane. I due si vedono più volte. Nei suoi ultimi viaggi in Afghanistan, sino a pochi anni fa, Ettore insisteva sempre per portare un fiore sulla tomba di Massud, assassinato dai militanti di Al Qaeda due giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001. 

Ha insistito per continuare a lavorare sin verso gli ottant’anni e i suoi servizi speciali toccano gran parte del nostro pianeta: dalla guerra nella ex Jugoslavia, alla Cecenia, al Pakistan, all’India. Fu tra l’altro uno dei pochi reporter occidentali che andarono a trovare i leader del neonato movimento di Hamas a Gaza quando vennero espulsi in Libano dal governo israeliano tra il 1992 e 1993. Rimase nelle loro tende nella terra di nessuno vicino al confine israeliano per 48 ore. Per lui il dovere di andare e raccontare superava qualsiasi barriera o pregiudizio.